Ho paura – racconto di Laura Costantini

Un racconto del 2009, perché cambiare il punto di vista è un esercizio utile.

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Sono nel mio elemento. Nel mio mondo pieno di pace. E mi tengo accanto la creatura che le mie viscere hanno saputo partorire. Lui è curioso, mi gira intorno, mi trattiene e mi spintona con la voglia inesausta di capire, di sapere, di chiedere.

Ho paura.

È un veleno che sento infiltrarsi in ogni fibra e temo di trasmetterla a lui che ha fame e cerca smanioso il capezzolo. Cresce a vista d’occhio il mio primo figlio. Ho fatto tanta strada per venire qui a partorirlo. Non potevo saperlo e, quando altre me lo dicevano, non riuscivo a capirlo. Eppure è bastato che sgusciasse fuori, bellissimo, perfetto in ogni sua parte, per avere davanti agli occhi la ragione della mia vita.

Ho paura.

Vorrei che mio figlio non indugiasse nella poppata. Vorrei muovermi veloce, nascondermi. Ma dove? Da cosa? Quaggiù, in quest’angolo di mondo freddo e deserto, i nemici non arrivano. Mia madre e sua madre e chissà quante altre nella nostra infinita storia hanno scelto di venire qui a partorire, perché i piccoli sono al sicuro. Possono succhiare il latte, giocare, crescere.

Ho paura.

Costringo mio figlio a lasciare la presa e lui protesta mentre un rivolo di latte denso e pieno di vita si diluisce nel blu che ci circonda. C’è un suono che non ci appartiene. Una vibrazione che si diffonde veloce e trasmette orrore.

Chi ci ha tradite? Come hanno fatto i nemici ad arrivare fin qui?

Ho paura.

La baia è ampia e profonda, l’acqua è ricca di cibo e il ghiaccio si immerge in trine che riverberano i nostri richiami come campane. È un posto tranquillo, un nido ideale per i nostri piccoli… una trappola mortale.

Ho paura.

I nemici stanno arrivando. Sono piccoli, sono malvagi, sono armati. Non sanno vivere nel nostro elemento, ma si muovono velocissimi e lo fanno preceduti da un suono che gela il sangue nelle vene. Devo fuggire, dobbiamo fuggire, tutte!

Ho paura.

Mio figlio ha capito che non è più tempo di giocare. Lo spingo brutale davanti a me, lo incalzo. Deve nuotare veloce, più veloce. La baia ha un imbocco stretto, nascosto e il suono che annuncia i nemici arriva da lì. Se bloccano la via di fuga…

Ho paura.

Il suono dei nemici ha riempito ogni mia percezione, ci sono addosso. Spingo mio figlio contro il ghiaccio tagliente. Lui piange. Il suo pianto è una lama che mi attraversa, ma non posso sottrarmi. È piccolo, ha ancora bisogno del mio latte. Non posso morire. Non voglio morire.

Ho paura.

Di una morte che non ha motivo. Noi non possiamo avere nemici. Noi siamo un popolo pacifico. Non facciamo male a nessuno, mai. Non abbiamo armi, non abbiamo denti, non abbiamo zanne.

Ho paura.

Mio figlio deve salire a respirare, non posso permetterglielo. Lo spingo sotto di me, lo guido verso il mare aperto che sembra così lontano. Sento i richiami delle altre, sento le grida di dolore, il pianto disperato dei piccoli. Il primo boato…

Ho paura.

Il mio elemento, il mio mondo blu sta andando in pezzi. Percepisco sulla pelle la vibrazione malvagia dell’esplosione. L’acqua si tinge di sangue. Hanno colpito qualcuna di noi e non c’è tempo neanche per piangerla. Mio figlio mi implora di lasciarlo salire in superficie. Deve respirare. Siamo creature imperfette. Apparteniamo al mare per nostra scelta. Ma il nostro corpo appartiene alla terra. Forse un tempo eravamo compagne dei nostri nemici e ci muovevamo come loro, goffe e lente sulla superficie emersa. Forse per questo ci odiano. Perché abbiamo avuto il coraggio di scendere in acqua e conquistare la parte più bella, più grande, più pura di questo mondo.

Ho paura.

Ma non ho scelta. Non posso lasciar morire mio figlio. Lo porto in superficie ed emergo a fargli scudo mentre, finalmente, respira a pieni polmoni. I suoni dei nemici sono dappertutto. Li sento gridare e percepisco tutto l’odio che li anima. Un odio che non riesco a comprendere. So che sono intelligenti, forse più di noi. Hanno trovato il modo di muoversi nell’acqua, di venire a stanarci nei nostri luoghi più sacri. La loro non è una furia cieca e primitiva. Loro vogliono farci del male.

Ho paura.

Spingo giù mio figlio. Di nuovo. Ma il boato è vicino. L’acqua è lacerata dall’arpione. Il dolore è assoluto. Mi penetra in profondità. Corre verso il centro del mio essere. Mio figlio si è fermato, chiede cosa succede. Non ho il tempo di rispondere. Il dardo dei nemici non ha terminato il suo compito. Qualcosa di enorme e infuocato si gonfia nelle mie viscere, squarcia, brucia, lacera. Esplode. Il mio corpo è forte. Resiste. Non vedo sangue diluirsi nel blu, non ancora.

Ho paura.

Mio figlio piange mentre il mio corpo viene trainato all’indietro. Vorrebbe seguirmi ma lo respingo. Non avrà più latte, non è abbastanza cresciuto. Morirà. Ma non voglio che accada davanti ai miei occhi. Non voglio che lo prendano i nemici. Trovo la voce per chiedere alle altre di portarlo via, lontano. Forse lo salveranno.

Ho paura.

Nessuno sa dirmi quanto dolore mi aspetta prima di essere ciò che loro vogliono: una balena morta.

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