Questo racconto era destinato a un’antologia che poi – come a volte succede – non ha visto la luce. L’idea era di prendere un’opera d’arte come fonte d’ispirazione. A me toccò Picasso e scelsi l’autoritratto “Pablo” del periodo blu.
Buona lettura
Ultimo piano. Interno 26
«La gente non conosce vergogna!»
Nel gelo di un mattino d’inverno, davanti a cassonetti straripanti d’immondizia e ammassi di pattume lungo il marciapiede, Paolo ha solo fretta di liberarsi del sacchetto dell’umido e tornare in casa. È sceso in tuta, non si aspettava che uno strato di brina tentasse, senza successo, di regalare poesia allo sfacelo dei rifiuti urbani.
«Nessuna vergogna, proprio! Guardi che schifo! Ma le pare possibile?»
Non la conosce, se non di vista. Una signora anziana, anche lei è scesa per l’umido e continua a inveire contro il degrado cui assistono tutti i giorni, ormai da anni. Non sa dove lasciare il sacchetto e continua a pattugliare il marciapiede, stringendosi nel cappotto e nella sciarpa, le lamentele che si condensano insieme al fiato.
«Guardi che roba! Neanche lo sforzo di portare gli ingombranti alla discarica.»
Scuote la testa, gli lancia un’occhiata di biasimo per la mancata solidarietà, appoggia il sacchetto dove può, in equilibrio instabile, e si rassegna ad attraversare il cortile per tornarsene a casa. Esattamente quello che Paolo, intirizzito, vorrebbe fare. Ma il sacchetto della signora rotola e innesca un piccolo crollo cui lui tenta inutilmente di porre rimedio. Ed è allora che lo incontra. Occhi grandi, neri, su un viso pallido, quasi livido. Fronte alta, naso importante, labbra stranamente rosse, femminee. Un ritratto. Paolo afferra il margine superiore della tela e la sfila dall’ingiuria dell’immondizia che l’ha quasi sommersa. Ha qualche macchia, ma verrà via, perché è una riproduzione con la superficie lavabile. Lui non è tipo da quadri, non ha mai amato la storia dell’arte. Preferisce, se proprio deve appendere qualcosa, fotografie e locandine cinematografiche. Però gli piange il cuore a lasciare lì quel volto, quello sguardo. La decisione è irrazionale e immediata. Ha freddo, ha un lavoro da finire. Tiene la tela lontana da sé e si affretta al portone. La signora anziana lo guarda passare dal giardinetto stitico del pianoterra e, ancora una volta, lo apostrofa: «La gente non conosce vergogna.»
La ignora e sale i gradini a due a due per scaldarsi e tornare nel tepore della casa che ha ereditato dai genitori. Grande, anche troppo. E vuota. Paolo è single. Una condizione che non ritiene invidiabile, ma che accetta con una serenità che si vena di sollievo quando, pulendo la tela, scopre la dedica.
Tu sei più bello, ma ti somiglia. Ha il tuo stesso cappotto. Ti amo. C.
Vergata con pennarello indelebile sul bordo superiore del telaio. Una grafia chiara, elegante, non troppo morbida. Una storia d’amore finita male se il tipo che somiglia al ritratto ha deciso di liberarsene in quel modo. Paolo annusa il quadro: il sentore di discarica è un sottofondo che, spera, svanirà lasciandolo un po’ sul balcone. Al riparo perché il grigio del cielo sta per sciogliersi in pioggia e non è da escludere che, col freddo che fa, venga giù qualche fiocco. Paolo si lava le mani con l’acqua calda e il detersivo dei piatti, ma la mente continua a fantasticare sulla tela, sulla dedica, sull’amore finito tra il tizio col cappotto blu scuro e “C”. Dovrebbe mettersi al computer, ha un lavoro da consegnare, ma afferra lo smartphone, esce di nuovo sul balcone, fotografa il ritratto e rientra. Non ha mai visto prima quell’immagine, però se è stata riprodotta, magari è famosa. Lancia la ricerca su Google ed eccolo lì: autoritratto di Pablo Picasso realizzato nel 1901. Un articolo di Focus recita: “Siamo nel cosiddetto Periodo Blu (dal 1901 al 1904): i suoi dipinti sono cupi, freddi, sui toni del blu e del turchese. Proprio come in questo autoritratto, dove Picasso appare avvolto da un cappotto blu e il suo viso rivela la tristezza e la depressione che lo colpirono in quegli anni.”
Depresso. Paolo apre l’immagine a tutto schermo. Lo sguardo è intenso, l’espressione seria. Però la tristezza non riesce a vederla. Picasso aveva vent’anni nel 1901, era già un genio. Continua a indagare in Rete sull’origine del periodo blu. “Pablo Picasso – legge in giro – soffriva per il suicidio dell’amico Carlos Casagemas che si era sparato al Café L’Hippodrome di Parigi il 17 febbraio del 1901, disperato per non essere corrisposto dall’adorata Germaine Pichot…”
Torna sull’immagine a tutto schermo e fissa, ricambiato, il ventenne Pablo.
«Insomma, eri triste perché Carlos è stato così idiota da ammazzarsi per una Germaine qualunque. Ci sta, però se la storia la dovessi scrivere io aggiungerei del pepe: tu eri innamorato di Carlos e quello non se n’è mai accorto. È andata così, confessa.»
Ridacchia, scuote la testa, chiude immagine e ricerca sullo schermo. Deve lavorare. A Pablo, che si purifica dall’olezzo di cassonetto appoggiato sullo stendino, penserà più tardi. Perché oltre al nome, qualcosa in comune ce l’hanno.
***
Piove. Una pioggia lenta e continua, quasi una nebbia che scivola silenziosa dall’alto in basso. Paolo ha consumato il cous cous precotto con le verdure e si è rimesso al computer. Ma la mente è altrove e il freddo non aiuta. Si fa l’americano col Nescafè e stringe la tazza tra le mani per scaldarsele, gli occhi alla portafinestra che affaccia sul palazzo di fronte. C’è ancora luce, nonostante il peso delle nubi, ma presto le finestre diverranno cornici per tele luminose e lui si incanterà a guardare la vita degli altri scorrere dietro i vetri. Anche Pablo, appoggiato allo stendino, fissa la stessa immagine con i grandi occhi scuri. Ormai la puzza sarà svanita e con tutta l’umidità che c’è fuori, il rischio è che il telaio si deformi.
«Non pensare che ci tenga a te», chiarisce mentre porta il ritratto all’interno e lo piazza su una sedia. «Facevo così anche con i giocattoli. Se dimenticavo i lego sul balcone e la notte pioveva, mi alzavo e andavo a recuperarli, perché mi dispiaceva che stessero al freddo.»
Annusa forte, Paolo, per avere conferma dell’avvenuta purificazione. In effetti sente solo il lieve profumo della candela alla cannella.
«Deve averla combinata grossa, “C”, per farti finire dritto nella spazzatura. Mi piacerebbe sapere la storia che c’è dietro: se il tipo che ti ha buttato ti somiglia davvero, se “C” è una Cristina oppure un Cristiano, se quando ti sei ritratto così eri più incazzato o più triste per il gesto di Carlos. Se ti sei mai sentito talmente solo al mondo da ridurti a parlare con un tizio con un brutto cappotto stampato su una tela comprata online… Già, ma tu che ne sai di che significa online?»
Il suono del campanello ha la portata di una deflagrazione. Acuto, fastidioso, inatteso. Paolo non aspetta visite e la consapevolezza che dietro la porta ci sia qualcuno lo agita come se fosse stato sorpreso a compiere un misfatto. Resta immobile, in attesa. Forse se tace, chiunque abbia suonato si scoraggerà. Ma il suono si ripete, insolente. Si alza in piedi, due passi, poi torna indietro, prende la tela e la nasconde dietro il divano. Non sa perché. Si accosta alla porta e maledice l’ostilità di sua madre per gli spioncini. Non può neanche sincerarsi di chi o cosa lo attenda.
«Chi è?», chiede sforzandosi di suonare autorevole.
«Non… non ci conosciamo, signor Del Regno, sono l’inquilino dell’ultimo piano…»
Giovane e intimorito. Paolo mette la catenella e apre uno spiraglio. È sufficiente a paralizzargli le labbra in un’espressione sbigottita: Pablo. Capelli scuri, occhi scurissimi e grandi, fronte alta, incarnato pallido, labbra rosse, un accenno di barbetta scura a contornarle. Non ha il brutto cappotto blu, però.
«Buonasera, mi chiamo Francesco… Francesco Petracca. Abito all’ultimo piano, credo che non ci siamo mai incontrati e… ecco, mi scusi, ma la signora Lattanzi, quella del piano terra, con il giardinetto, mi ha detto che…»
Paolo stenta a seguirne le parole. Pablo. “C” aveva ragione: Francesco è più bello, più vero, ma solo perché è reale. Forse. Scuote la testa.
«Mi scusi, stavo lavorando e non ho capito di cosa ha bisogno», dice, poi si dà dello stronzo.
«Magari la signora Lattanzi si è sbagliata, è anziana… però mi ha detto che lei ha recuperato una cosa dalla spazzatura.»
Maledetta impicciona! «E allora? Lavora per l’Ufficio d’Igiene?»
Pablo (no, si chiama Francesco) si stringe nelle spalle, fissa lo zerbino con il motto di Star Wars: May the Force be with you. E la forza la trova, anche se parla a testa bassa.
«Una riproduzione di un quadro famoso. Un autoritratto di Picasso in età giovanile. Io… l’ho gettata via in un momento di… rabbia, sconforto, lo chiami come vuole. Ma… vorrei riaverlo.» Su quelle ultime due parole rialza il viso. E Paolo si chiede come facciano due occhi così scuri a emettere tanta luce. Lo sguardo è un’esegesi dell’autoritratto di Pablo e di ciò che Francesco ha appena detto: “vorrei riaverlo”. Carlos Casagemas o magari solo la persona che si è firmata “C”. «Lo ha preso lei? La prego, sono disposto a pagarle il disturbo, sul serio. È solo una riproduzione, ma per me ha un grande valore. Non so cosa mi sia preso a gettarla via…»
Paolo chiude la porta sul volto pallido che sta per accartocciarsi in un’imbarazzante manifestazione di fragilità. Ma lo fa solo per togliere la catenella.
«Fa troppo freddo per starsene sul pianerottolo», borbotta facendosi da parte per lasciarlo entrare. Francesco obbedisce. Due passi, poi si guarda intorno. Il grande divano, la tv appesa alla parete, il tavolo/scrivania con il notebook aperto, la locandina originale del ’78 di Star Wars appesa alla parete, la libreria dal lato opposto.
«Non sono tipo da quadri, io», spiega Paolo. «Con l’arte bazzico poco, però…», recupera la tela da dietro il divano e gliela mostra, «il povero Pablo abbandonato tra i sacchetti dell’indifferenziata mi ha fatto pena. Posso offrirti un caffè?»
Francesco non ha osato recuperare ciò che è suo. Annuisce e Paolo appoggia il giovane Picasso sui cuscini. «È vero che ti somiglia», dice raggiungendo la piccola cucina nascosta da una porta. Non ottiene risposta. Il ronzio del microonde riempie il silenzio e Paolo si affaccia sul saloncino. L’ospite inatteso è ancora in piedi, si stringe tra le braccia e fissa l’immagine che potrebbe essere un suo riflesso. Solo che il giovane Picasso è serio, Francesco è una maschera di dolore. «Siediti, zucchero nel caffè?»
«Sì.» Un filo di voce, poi una robusta soffiata di naso. Quando Paolo torna da lui, Francesco è seduto sul divano in punta di cuscino. Accetta la tazza e abbozza un sorriso. «Stavi lavorando» dice indicando il notebook.
«Avrei dovuto, sì», risponde Paolo sistemandosi sulla sedia e chiudendo lo schermo del portatile. «Ma mi incuriosiva troppo la storia di Pablo.»
Francesco si gira per un istante a guardare la tela, poi se ne distoglie come non ne reggesse la vista.
«Di Picasso mi piacciono le opere cubiste», dice dopo un sorso di caffè. «Ma c’era una mostra, tempo fa, che accoglieva anche le opere giovanili. Avrei dovuto andarci, poi all’ultimo momento ho avuto un contrattempo e allora… c’è andato da solo, Carlo. E mi ha portato la riproduzione.»
Tu sei più bello, ma ti somiglia. Ha il tuo stesso cappotto. Ti amo. C. È quello il nome. Carlo. Come Carlos Casagemas. Loro però, Carlo e Francesco, erano già al ti amo. Paolo sente un’acuta fitta di invidia. E non ce la fa a non chiedere.
«Che gli è successo? A Carlo, dico.»
Di nuovo quegli occhi, così scuri, così intensi. E lucidi.
«È morto. Un’incidente con lo scooter. Poteva prendere la mia smart ma no, il testone. Se la rideva sempre delle mie paure. Pioveva, c’era una grata per terra, è scivolato, arrivava il tram…»
Paolo vorrebbe trovare qualcosa di intelligente da dire. Qualcosa di giusto. Non capisce come si possa gettar via un ricordo, una dichiarazione d’amore come quella che sembra fissarlo severa dal divano. Rabbia, certo. Perché chi resta ha il diritto di essere incazzato con chi se va all’improvviso, per uno stupido incidente. Una scivolata, un tram e tutti i progetti finiscono nel cassonetto della vita. Perché non una stupida riproduzione?
«Posso… posso riaverlo?»
Francesco ha posato la tazza, piena per metà, sul tavolino. Indica il quadro.
«Certo. È tuo e sono contento di averlo recuperato prima che piovesse. Si sarebbe rovinato.»
«E io non so come ringraziarti… dimmi tu se…»
Paolo sta guardando il giovane Picasso. Se, per una volta nella vita, ha raccolto qualcosa dalla spazzatura, un motivo ci sarà. Parla prima di avere il tempo di pensare.
«Stasera contavo di spararmi un film e una pizza surgelata», azzarda.
Francesco si è alzato. Ha preso il quadro. Esita, poi lo guarda, serio.
«E se invece la pizza la preparassi io? Sono un bravo cuoco.»
«Ce l’hai Netflix?»
«Sì. La birra la porti tu. Ti aspetto per le otto. Ultimo piano, interno 26.»
Laura Costantini