Quello che il diario non dice #3

L'incontro con Aldus Shelby

Era l’estate del 1885.

Robert aveva compiuto diciassette anni ad aprile. Io dovevo attendere novembre. Giovani. Giovanissimi. Esattamente come i ragazzi di piacere che si vendevano nelle strade e nei bordelli londinesi. Robert era in Scozia con la sua famiglia, in quel luglio. Io ero a Londra e stavo dando forma all’idea di allargare l’accoglienza di giovani vittime per sottrarle allo sfruttamento dei lenoni e alla perversione dei clienti. Bappa conosceva bene gli orrori di Whitechapel  e mi faceva da guida e da guardia del corpo nel percorrere quei vicoli dove perfino la luce del sole estivo sembrava faticare a farsi largo. Miasmi osceni si univano alla calura nel creare una bruma malsana che nessun fazzoletto profumato poteva lontana dalle narici. Durante quelle spedizioni indossavo vecchi abiti di tela, un berretto sformato per nascondere i capelli e scarponi sfondati, ma la voce che mi si accese alle spalle suonò piena di scherno e di incredulità.

“Ma guarda: un damerino a caccia di emozioni.”

Mi voltai. Avevo un pugnale allacciato alla caviglia e una pistola infilata nella cintura di cuoio screpolato. Bappa mi era accanto, anche lui vestito di vecchi stracci, ingobbito a nascondere un’agilità che aveva del miracoloso.

“Lo scimmione dovrebbe difenderti se si mette male, immagino.”

Giovane. Robusto. Vestito in modo decoroso, per le abitudini di quel regno di povertà e degrado. Soprattutto bello. Occhi di un blu profondo. Labbra piene e denti sani, anche se leggermente storti. Pelle chiara, compatta. Capelli riccioluti dalle sfumature d’oro rosso.

“Immagini bene”, risposi. Alzai gli occhi. Era appena uscito da un portone che conoscevo di fama. Una locanda, la sera. Ma offriva ben più che zuppe e stufati ai gentiluomini che riuscivano ad arrivare fin lì a bordo di carrozze pubbliche, protetti dalle ombre complici e dal passaparola.

“Stai cercando un lavoro, dolcezza?”, mi chiese.

“E se fosse?”

“Saresti nel posto giusto. E io potrei metterci una buona parola. Sei magro, ma hai la faccia adatta per eccitare i clienti.”

Voleva mettermi in difficoltà. Tutto nella sua postura voleva essere provocazione, volgarità, lussuria. Mi strappò il berretto dalla testa e i capelli si sciolsero. Ne afferrò una ciocca, facendosi vicino. L’alito sapeva di alcool e di fumo.

“Ma guarda un po’ che splendore di ragazzina… E dimmi: sei vergine oppure ti hanno già fatto la festa?”

“E a te?”

Aveva mani grandi. Ne usò una per prendermi il mento in una morsa dolorosa.

“Devi imparare che la bocca si tiene chiusa, almeno fino a quando non sei in ginocchio davanti alle brache calate del cliente. Allora la apri e fai quello che ti viene chiesto.”

“A te piace farlo?”

Sentivo la tensione di Bappa. Ma sapeva che senza un mio preciso ordine non doveva intervenire.

“Ti piace, non ti piace. Non importa a nessuno. Se lavori bene, guadagni e tra quattro, cinque anni, se sei ancora vivo, puoi ritirarti. Allora, ti interessa? Non ho tempo da perdere. Il tempo è denaro.”

Gli presi il polso, costringendolo a lasciarmi il mento.

“E se fossi io a farti una proposta?”, dissi.

Rise.

“Non me lo faccio mettere in culo da una fighetta come te. Ma posso dartelo da succhiare, se ci tieni. Fa cinque scellini.”

Risi anch’io.

“Te ne offro quindici.”

Gli occhi blu, dalle ciglia folte, si strinsero, pieni di sospetto.

“Per fare cosa?”, domandò occhieggiando Bappa. “I clienti me li scelto e lo scimmione non è di mio gusto.”

“Quindici scellini a settimana. Per fare il guardiano.”

Altra risata. Sguaiata.

“A cosa? Al tuo prezioso culetto vergine? Io quindici scellini li guadagno in mezzora.”

“In ginocchio davanti alle braghe calate di quanti clienti?”

Le sue mani scattarono ad afferrare i lembi frusti della giacchetta che indossavo.

“Che cazzo vuoi, stronzetto? Che ti rovini i connotati?”

Non mi curai dei suoi strattoni.

“Ti piace questa vita?”

“Che te ne importa? Chi sei tu?” Mi spintonò lontano, ma riuscii a non cadere nel fango puzzolente del vicolo. “Levati di torno prima che qualcuno decida che hai fatto una domanda di troppo. Sparisci!”

Si era voltato a guardare la locanda, come temesse chiunque ne potesse uscire in quel momento.

“Non devi continuare a venderti lì dentro, posso aiutarti. Come ti chiami?”

“Non voglio il tuo aiuto. Non mi serve niente da te. Sto benissimo qui.”

Si girò e affrontò la melma del vicolo, saltando con un lieve balzo lo scolo che ne percorreva la pendenza spandendo olezzo di latrina. E tale era. Quando si percorrevano quegli spazi angusti, era buona norma lanciare sempre un occhio alle finestre per evitare di ricevere sulla testa e sulle spalle il contenuto dei pitali e delle sputacchiere.

“Stai benissimo?”, lo incalzai seguendolo, seguito a mia volta da Bappa.

“Mi hai sentito.”

“Quanti anni hai?”

“Diciassette, diciotto, non lo so e non mi interessa.”

“Per quanto tempo ancora troverai clienti interessati a ciò che hai da offrire? A quelli piacciono i lineamenti efebici, i corpi sottili e glabri. Che succederà quando si renderanno conto che sei troppo… maschio?”

Fece quasi una piroetta per affrontarmi. Rischiai di piombargli addosso e mi ritrovai, di nuovo, le sue mani aggrappate alla giacca.

“Non te lo chiedo più, puttanella, che vai cercando?”

Mi spinse contro un muro. Era forte. Ancora una volta fermai Bappa con un’occhiata.

“Te l’ho detto. Voglio proporti in lavoro.”

“Ce l’ho un lavoro. E guadagno bene.”

“E rischi di ammalarti o di farti ammazzare da qualche pervertito.”

“Io? Ascoltami bene, va’ da qualche altra parte a giocare all’angelo dei diseredati.” Avvicinò il volto al mio e annusò con forza. “Sei profumato e pulito. Troppo. Ho sentito parlare di un frocetto dagli occhi gialli che raccoglie ragazzini dalla strada e li porta non si sa bene dove. È questo che vuoi? Portarmi nel tuo regno? Oppure stai mettendo su un bordello della concorrenza?”

“Non è un regno. Ma è un castello, nell’Hertfordshire, dove cerco di dare una speranza di dignità e di futuro a chi non ne ha.”

“Perché?”, mi scandì contro la faccia, schizzandomi di saliva. “Che ci guadagni, tu?”

“La soddisfazione di toglierli dalla strada e di portarli via ai pervertiti che ne abusano.”

“Cazzate!”

I suoi occhi blu erano piantati nei miei, diffidenti. Eppure…

“Perché non vieni con me a dare un’occhiata? Nessuno ti impedirà di tornare qui, se la cosa non ti convince.”

“So già che non mi convince. Tu non mi convinci. Nessuno fa niente per niente.”

“Ti ho detto che mi serve una persona di fiducia, un guardiano. Non posso essere sempre presente al castello e…”

Il colpo arrivò a tradimento. Dritto nello stomaco. E mi mozzò il fiato.

“Tu non mi conosci. E io non voglio conoscere te. Lasciami in pace!”

Decisi che ne avevo avuto abbastanza. Lo afferrai. Lui tentò di spaccarmi il naso con una testata. Riuscii a evitare il colpo abbassando di scatto la testa. Impattò contro la sommità della mia fronte. Fu doloroso, per entrambi. Ma non mi lasciai stordire. Tenendolo per la giacca feci scattare il ginocchio verso l’alto e colpii nel segno. Il fiato gli sfuggì in un gemito mentre si piegava. Non gli permisi di cadere. Lo tenni in piedi e stavolta fui io a piantarlo contro un muro sudicio.

“Tratti sempre così chi tenta di aiutarti?”, chiesi.

“Tu non mi puoi aiutare. Non puoi aiutare neanche te stesso. Credi che ti lasceranno fare quello che hai in mente? Ognuno dei ragazzini che porti via sono soldi in meno per gente che, fidati, non vuoi far arrabbiare.”

“Non mi fanno paura.”

Mi guardò con uno stupore che vidi trasformarsi in rabbia.

“Tu sei pazzo”, mi sputò in faccia. Poi si ribellò alla mia presa e cominciò a colpire. Ancora una volta credeva di aver gioco facile. Succedeva spesso. Mi guardavano in faccia e la peculiarità dei miei lineamenti li convinceva di aver a che fare con una persona delicata e timorosa come una fanciulla. Ma avevo imparato a difendermi nell’inferno di Calcutta. E mi allenavo costantemente con Bappa. Quel ragazzo lo imparò a proprie spese e fu costretto a prenderne atto quando si ritrovò spalle a terra, costretto a sputare sangue con me a sovrastarlo.

“Che cazzo vuoi da me?”, chiese ancora.

“Offrirti un lavoro onesto.”

“Perché io?”

“Sei robusto e sei testardo come un mulo. Esattamente la persona che mi serve.”

“Non mi conosci. Potrei essere un ladro, un truffatore, un assassino.”

“Io sono stato tutte e tre le cose.”

Strinse gli occhi, fissandomi e cercando di capire se lo stessi prendendo in giro.

“Chi sei tu?”, domandò alla fine dell’esame.

“Lord Kiran Douglas conte di Lennox”, risposi tirandolo in piedi grondante liquami. “E tu?”

Sputò altro sangue.

“Aldus”, rispose. “Aldus Shelby e che il diavolo mi porti se capisco perché un simile damerino venga qui a rotolarsi nella merda.”

“Mi diverte stupire i gradassi come te.”

Cercò di pulirsi dal fango con il risultato di aggravare la situazione dei suoi abiti. Recuperò il cappello ma rinunciò a calcarselo in testa.

“Che devo fare?”

“Accetta la mia proposta.”

“Quindici scellini a settimana?”

Una smorfia distorse le labbra ferite dai miei pugni.

“Posso arrivare a venti. Non un centesimo di più.”

“Vitto e alloggio?”

“Erano già previsti.”

“Il mio protettore verrà a cercarmi. Gli frutto ancora parecchio.”

“Se avrà il coraggio di presentarsi al mio castello, troverà pane per i suoi denti.”

Gli indicai Bappa che, impassibile, aprì il soprabito e mostrò l’affilatissimo kukri che portava alla cintura.

“Beh, se non vuoi che il tuo scimmione debba usare quel coltellaccio entro i prossimi dieci minuti, togliamoci di qui.”

Fece per muovere un passo, ma lo bloccai.

“Lui è Bappa, è un guerriero gurka e tu devi portargli rispetto. Ha molto da insegnarti.”

Stava per replicare, poi lo sguardo del mio nepalese lo scoraggiò.

“Bappa. Che nome è Bappa?”

Lo spintonai perché ci precedesse. Mi doleva la testa lì dove mi aveva colpito, avevo le nocche sbucciate e lo stomaco indolenzito. Ma sorrisi. Ero certo di aver fatto un ottimo affare quel giorno.

 

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