Quello che il diario non dice #1

“Non è una danza”, ha detto dondolandosi sul ramo, forte e flessibile come lui. “È un’arte antica e difficile. Un’arte marziale. Ho dovuto perseguitare il mio maestro per ottenere che mi insegnasse.”

“Vuol dire che dovrò perseguitarti?”, ho domandato, felice di quella confidenza inattesa.

“Puoi provarci, Robert.”

 

Non sono bravo con le parole. Non quanto Robert che, con le poche righe qui sopra, ha saputo rendere il momento in cui mi sono arreso al desiderio di continuare a vederlo. Un desiderio assurdo e inspiegabile. Uno straccione mezzosangue che a volte riusciva a fuggire dalla prigione d’orrore che gli era stata destinata e correva su quel ghat. Per spiare la casa candida dove sapeva di essere nato. E per fingersi un guerriero capace di sconfiggere nemici, timori e vergogna manovrando una spada di legno.

Oggi è il mio compleanno. E quella spada di legno è stata il primo, e per molto tempo unico, dono che la mia disgraziata infanzia ricordi. Nel corso degli anni Robert ha fatto domande sul misterioso maestro che perseguitai per imparare a muovermi in quel modo, a danzare lottando. Una delle molte cose sulle quali sono stato reticente con lui.

Voglio riparare e voglio raccontare a Robert e a voi chi era Yu Xingdong.

Dovevo avere circa otto anni. Non potevo saperlo con certezza perché vivevo isolato dal mondo e lo scorrere del tempo per me era solo consapevolezza che la tortura appena cessata si sarebbe ripetuta. Tra poche ore o forse tra pochi giorni. Il duca non mi consentiva alcuna libertà. Vivevo in un’ala del suo candido palazzo di Calcutta. Avevo abiti, cibo, servitori. La bellezza mi circondava e mi opprimeva. A cominciare dalla mia. Specchi. Specchi dappertutto. Era come essere inseguito da me stesso. Dalla mia faccia, dai miei capelli, dai miei occhi, dal mio corpo. Un maschio bello come una femmina. Un abominio. Avevo cessato presto di urlare, di piangere, di implorare pietà. Tutto intorno a me tramava per dimostrarmi che era colpa mia. Se io non fossi stato quello che ero, non sarebbe successo. Senza quella faccia, lo sguardo del duca mai si sarebbe posato su di me.

Ero rassegnato. E triste. Quando ero solo, la maggior parte del tempo, sedevo sul davanzale della finestra e fissavo il parco del palazzo e lasciavo riposare lo sguardo, lontano dalla mia immagine riflessa negli specchi. Fu così che incontrai Yu Xingdong.

Un cranio lucido su casacca e pantaloni neri. Un uomo senza età. Prima di rendermene conto cominciai ad attendere che apparisse nel parco e cominciasse a danzare. Lo faceva nel momento in cui il cielo illividiva e da velluto si faceva di madreperla. E ai miei occhi di bambino sembrava che fossero quei suoi movimenti infinitamente ripetuti e infinitamente aggraziati a sollevare l’alba dall’orizzonte. Una magia. Impugnava una spada, imparai col tempo che si chiamava dao, e combatteva. Passai mesi a fissarlo, a rubare quei gesti senza ancora osare tentare di ripeterli. Quei momenti che mettevano in fuga la notte divennero il mio rifugio. Credo che Yu Xingdong si sia accorto di me fin dalle prime volte. Lui era uno dei numerosi servitori del duca. Non aveva alcun contatto con quelli come me. Gli angeli del padrone. E non sembrava intenzionato ad averne.

L’alba in cui decisi di calarmi giù dalla finestra per raggiungerlo, non diede alcun segno. Come fossi invisibile. Non mi avvicinai troppo. Ma cominciai a ripetere i suoi movimenti, impugnando una canna di bambù. Che si annunciasse una torrida giornata di sole dardeggiante, che piovesse come se il cielo avesse deciso di affogare tutti noi insieme alle nostre colpe, da quel giorno non mancai mai l’appuntamento. Quando danzavo con lui, tenuto a distanza eppure accettato, mi liberavo di me stesso, di quello che ero, di quanto mi veniva imposto. Andò avanti per anni. Mai una parola, mai un cenno, una correzione. Ma mi sentivo il suo discepolo. E imparavo. Mi resi conto che Yu rendeva i movimenti sempre più complessi, a volte veloci, a volte lenti. Imponeva equilibri improvvisi e staticità che ci trasformavano in elementi del parco non diversamente dai tronchi degli alberi che ci circondavano. Lui con la sua spada di legno lucido e istoriato, con un lungo pennacchio di seta a pendere dall’impugnatura. Io con la mia canna di bambù.

E poi accadde. Al termine di una lunga danza. Dopo il saluto che Yu rivolgeva al mondo e mai a me. I suoi occhi scuri e sottili sul volto impassibile incontrarono i miei. Anni. E non era mai accaduto. Trattenni il fiato e rimasi immobile, la canna di bambù ancora in mano. Il maestro mosse pochi passi e mi raggiunse. La dao tenuta in orizzontale con entrambe le mani, come un’offerta.

«Per te», disse con una voce che non avevo mai sentito. «Usala per allontanare il buio.»

Fu l’ultima volta che lo vidi. Non so cosa successe. Nessuno seppe dirmi dove fosse andato e perché. So che la sua assenza mi restituì le lacrime. E con le lacrime lavai via la rassegnazione e mi consegnai alla rabbia. Senza quella spada la luce di una luna piena sul ghat dell’Hugly non mi avrebbe mostrato a un paio d’occhi limpidi come acqua in un catino di stagno. Senza quella spada non avrei trovato mai il coraggio di sperare. E di sorridere a Robert.

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