Da quando ho cominciato a raccontare storie, di parole “fine” ne ho scritte tante. Alle volte con sollievo, altre con soddisfazione e aspettativa, alle volte con un pizzico di malinconia. Stavolta no, stavolta ha fatto male. Molto. E mi sono chiesta perché. No, non c’entra l’aver messo il punto a una storia solo mia. Era già successo. Di sicuro scrivere con due sole mani, invece delle nostre solite quattro, ha fatto la differenza. Ma non perché la scrittura solitaria sia più intensa. Le storie che si creano, si coccolano, si scrivono riempiono la vita. Credo sia inevitabile. E bellissimo. Se si è in due a scrivere, l’intreccio crea dialoghi, telefonate, condivisioni tali da rendere i personaggi tanto reali da popolare sogni e tragitti in auto. Ma si è in due e l’ossessione, perché di questo si tratta, si stempera nella necessità di rimpallarsi spunti e idee e sviluppi. Come due genitori, si tiene la creatura per mano e la si accompagna fino al momento in cui sarà in grado di proseguire da sola. E quando lo farà, i due genitori son lì, a guardarla avviarsi. Spesso con il pensiero già rivolto alla prossima storia, alla sorella che le si darà. La malinconia dura poco e si stempera anche nel reciproco sdrammatizzare, nel nostro caso, di due mature signore col cuore da adolescenti e la mente quasi sempre altrove. In due il distacco si gestisce meglio. Invece stavolta ho scritto, sofferto, creato da sola. Non solo perché la storia era mia. Ma perché l’ho scritta in una situazione diversa da tutte quelle vissute prima. “Un diario vittoriano” prende spunto da una storia che ho scritto, senza concluderla, a partire dall’estate del 1978. Quasi quarant’anni prima di decidermi a ridare voce a quei due ragazzi. Mi parlavano, ogni tanto, ma la loro voce non trovava spazio. Vita, lavoro, scrittura, famiglia. Non c’era spazio. Poi è successo il trasferimento in Molise, il distacco dalla consueta routine. Le sere sul divano con un occhio alla tv e uno al tablet per giocare a candy crash. Sere buttate, in un certo senso. In attesa del rientro a Roma, in attesa di ritrovare i personaggi miei e di Loredana. E in quell’attesa si sono saputi inserire loro, quei due ragazzi. Hanno cominciato a sussurrare, a suggerire, a riempire i vuoti. E nel momento in cui, era agosto 2015 ma ci pensavo già da mesi, ho cominciato ad ascoltarli non mi hanno più lasciata. Li ho presi tredicenni, sapendo che li avrei portati all’età adulta, attraverso un’epoca affascinante, luminosa e oscura insieme, di sicuro ipocrita e violenta. Quattordici mesi insieme, nei ritagli di tempo certo, ma insieme. Nei lunghi viaggi in macchina, nelle ricerche su google, nella documentazione storica, medica e di costume. Leggendo Emily Dickinson, le carte del processo di Oscar Wilde, la biografia della regina Vittoria, i versi intensi di Walt Whitman. Una vita parallela insieme a loro, ascoltando musica e scovando spunti anche dalle hit dei nostri giorni. Una simbiosi. Sto facendo un torto ai personaggi miei e di Lory? No. Lei e loro sanno. Li penso vivi, li vedo con gli occhi della mente, so cosa pensano anche adesso che viaggiano tra i lettori del Puzzle di Dio, di Ricardo y Carolina, di Contrabbandieri d’amore. Ma Robert e Kiran sono diversi, più fragili, lontani, sofferti. E se ne sono andati, adesso. So di avere un bel gruppetto di personaggi nel Montana del 1960. Ci sto lavorando insieme a Loredana e hanno una bella storia da raccontare. Tanti altri occhieggiano e si sbracciano per ottenere attenzione. E l’avranno. Ma ci sono conclusioni che pesano più di altre. Separazioni difficili. E credo che questo piccolo, dolce dolore cui ho dedicato anche qualche lacrima faccia parte della bellezza e della magia della scrittura.